Nella Giornata della Memoria (27 gennaio) e nella Giornata Mondiale del Giusto (6 marzo), ecco un’interessante intervista al prof. Pierluigi Guiducci, insigne storico della Chiesa – Ebrei e cattolici davanti alla Shoah, alle azioni di tutela dei perseguitati, ai Giusti

QUANDO IL DIALOGO È IN SALITA

IL DOTT. CARLO MAFERA INTERVISTA LO STORICO PROF. PIER LUIGI GUIDUCCI

https://i0.wp.com/media01.radiovaticana.va/imm/1_0_764406.JPG

Nel più recente periodo sono state condotte molte ricerche con riferimento alla Shoah e a quanti hanno operato a difesa degli ebrei perseguitati. Il materiale raccolto è costituito da una mole di atti. Unitamente a ciò, mentre gli storici sono ancora al lavoro, si è sviluppato un dibattito ideologico e politico ove coesistono interpretazioni convergenti su talune evidenze e voci discordi su altri temi, accuse riguardanti collaborazionismi e repliche molto decise, promozione di studi condotti in modo integrato (convegni, commissioni, gruppi) e azioni unilaterali.
In tale contesto, la gente rimane a volte disorientata da linee di pensiero tra loro divergenti (e difficili da modificare).
Esistono autori che sostengono il negazionismo della Shoah (David Irving, Robert Faurisson, Fred Leuchter, Richard Williamson…). In alcuni Paesi il negazionismo è diventato un reato, es. Austria, Belgio, Germania.
Altri insistono, al contrario, per accentuare le responsabilità di quanti vengono accusati di non aver operato abbastanza (o di non aver fatto nulla) per denunciare e fermare uno sterminio. In pratica, si punta il dito verso alcuni Stati (tra cui la stessa Svizzera), organismi umanitari (Croce Rossa), istituzioni confessionali…
C’è chi individua nella Shoah un evento unico nel suo genere. Non comparabile a nessun altra tragedia umanitaria. A motivo del fine generale, del progetto esecutivo (che coinvolse la burocrazia ministeriale, la Wehrmacht, l’amministrazione economica e l’apparato del partito nazista), dei metodi adottati e della fase risolutoria. Quello ebraico, si sottolinea, è stato l’unico sterminio perpetrato contro un popolo che non era in guerra, che non costituiva un pericolo (neanche si difendeva), che non era indagato sul piano penale (milioni di persone erano accusate di essere geneticamente ebrei).
Emerge poi la voce di coloro che ritengono utile inserire la Shoah in una più vasta mappa di morte, i cui luoghi sono individuabili in più nazioni. Qualcuno arriva a dire: perché una Giornata della Memoria solo con riferimento ai morti di fede ebraica? Non sarebbe meglio promuovere una Giornata delle Vittime del nazionalsocialismo?
Non mancano coloro che scorgono nei riferimenti alla Shoah una strategia politica mirata a mantenere compatti gli ebrei sparsi nel mondo (rivolgendo attenzione anche alle nuove generazioni). Tale scelta avrebbe pure lo scopo di meglio toccare la sensibilità delle nazioni, così da non insistere troppo su temi “caldi” (le vicende legate al sionismo, le scelte politiche israeliane, taluni contenuti della religione ebraica…).
Permane poi la posizione di quanti ritengono essenziale assicurare alla giustizia gli ultimi criminali nazisti. Al riguardo, esiste attualmente un’istruttoria penale riguardante Oskar Gröning. I procuratori tedeschi lo ritengono “il ragioniere di Auschwitz”. Confiscava le valigie dei condannati alle camere a gas, ne raccoglieva contenuto e soldi e poi li catalogava. Quindi, li trasferiva a Berlino. L’uomo ha 93 anni. La prima udienza (21 aprile 2015) si svolgerà a a Lüneburg (Germania del nord).
In tale contesto, si comprende come il lavoro degli storici non sia facile. Essi devono lavorare tenendo conto di precise coordinate, verificando documenti di ogni tipo (non solo cartacei), valutando ciò che appare (es. corrispondenza tra diplomatici), e quanto si ritiene essere ancora in ombra (es. intese segrete) o celato (es. archivi russi). Tale dinamica richiede di entrare pazientemente e con discrezione in una rete relazionale. Ed è qui, in questi rapporti significativi, che trovano importanza anche le forme di lavoro comune tra studiosi ebrei e cattolici. Su quest’ultimo punto, con l’aiuto di uno storico, cerchiamo di comprendere i dati positivi e le criticità superabili.

ecco un interessante link correlato

http://www.settimananews.it/cultura/6-marzo-giornata-dei-giusti/

MAFERA: Il lavoro di ricerca degli storici è sempre molto faticoso. E delicato. Un esempio riguarda la realtà della Shoah. Si è aperta nel recente periodo un’interazione positiva tra studiosi di fede ebraica e cattolici. Può farne un cenno?
Nel marzo del 2013 è stato pubblicato, a cura dello Yad Vashem, il volume Pius XII and the Holocaust. Current state of research. Si tratta degli atti di un workshop (Gerusalemme, 2009) con studiosi di più Paesi. Insieme a ciò, occorre ricordare che da parte ebraica sono stati pubblicati diversi studi che riconoscono l’opera svolta da Pio XII, da organismi cattolici e da un alto numero di laici a favore dei perseguitati del tempo…

MAFERA: Ad esempio…
Il rabbino e storico statunitense David Gil Dalin ha scritto il volume The myth of Hitler’s Pope: how Pope Pius XII rescued Jews from the Nazis. Ma si devono anche ricordare l’industriale statunitense ebreo Gary L. Krupp (Fondation Pave the Way), lo storico Martin Gilbert, di origine ebrea (morto nel 2015)…

https://i0.wp.com/media01.radiovaticana.va/imm/1_0_772816.JPG

MAFERA: Un dato significativo…
Sì, perché si è cercato di comprendere l’operato di Pio XII partendo da anni precedenti il pontificato, e dalla sua prima enciclica (Summi Pontificatus, pubblicata il 20 ottobre 1939).

MAFERA: Che afferma questo testo?
Pio XII condannò diverse realtà collegabili al nazionalsocialismo. Basti pensare ad alcuni passaggi:
-il primo errore “è la dimenticanza di quella legge di umana solidarietà e carità, che viene dettata e imposta sia dalla comunanza di origine e dall’uguaglianza della natura razionale in tutti gli uomini, a qualsiasi popolo appartengano…”;
– possa quest’atto solenne proclamare a tutti i Nostri figli, sparsi nel mondo, che lo spirito, l’insegnamento e l’opera della chiesa non potranno mai essere diversi da ciò che l’apostolo delle genti predicava: “(…) non esiste più greco e giudeo, circonciso e incirconciso, barbaro e scita, schiavo e libero, ma tutto e in tutti è Cristo”;
-la concezione “che assegna allo Stato un’autorità illimitata non è, venerabili fratelli, soltanto un errore pernicioso alla vita interna delle nazioni (…) ma arreca altresì nocumento alle relazioni fra i popoli, perché rompe l’unità della società soprannazionale, toglie fondamento e valore al diritto delle genti (= la Polonia era stata invasa), apre la via alla violazione dei diritti altrui (= arresti, internamenti, uccisioni) e rende difficili l’intesa (= cancellato il patto di Monaco) e la convivenza pacifiche”;
– tutti osservano “con spavento l’abisso a cui hanno portato gli errori da Noi caratterizzati e le loro pratiche conseguenze”.
“…la salvezza non viene ai popoli dai mezzi esterni, dalla spada, che può imporre condizioni di pace (= questione dei Sudeti, il problema di Danzica…), ma non crea la pace”.
Alla fine, il Papa lanciò un appello:
“…il mondo e tutti coloro che sono colpiti dalla calamità della guerra devono sapere che il dovere dell’amore cristiano (…)non è una parola vuota, ma una viva realtà. Un vastissimo campo si apre alla carità cristiana in tutte le sue forme. Abbiamo piena fiducia che tutti i Nostri figli, specialmente coloro che non sono provati dal flagello della guerra, si ricordino, imitando il divino Samaritano, di tutti coloro che, essendo vittime della guerra, hanno diritto alla pietà e al soccorso”.

https://i0.wp.com/www.lastampa.it/rf/image_lowres/Pub/p3/2015/01/05/Esteri/Foto/VT-IT-ART-38389-papa_pacelli_ok.jpg

MAFERA: Quindi l’appello ai cattolici a soccorrere le vittime della guerra è del 1939. Non bisogna attendere il 1943…
Sì. Tra il 1939 e il 1943 ne seguirono altri di appelli.

MAFERA: I cattolici compresero?
Dagli archivi delle diocesi e delle congregazioni ho trovato molteplici documenti che si collegano all’appello di Pio XII. E pure i nazisti compresero. Si riscontra negli atti del nazionalsocialismo e negli stessi telex dello spionaggio. Da quel momento, il Papa doveva essere spiato.

MAFERA: Oltre a studiosi ebrei, esistono anche storici cattolici che hanno interagito (e interagiscono) con ricercatori di fede ebraica?
Sì, certamente. Il loro numero è esteso (Riccardi, Napolitano, Samerski, Loparco, Guiducci…).

MAFERA: Prof. Guiducci, malgrado nuove evidenze che dimostrano l’azione di Pio XII e quella della Chiesa Cattolica a tutela degli ebrei perseguitati, continuano a circolare voci non favorevoli a questo Papa. In taluni casi molto dure. Nel Suo lavoro, si è trovato davanti a dei casi concreti?
Sì. Dal 17 ottobre al 30 novembre 2013 fu allestita a Roma (Vittoriano) una mostra dal titolo: “16 ottobre 1943. La razzia degli ebrei di Roma”. A promuoverla fu la Fondazione Museo della Shoah. Visitai questa esposizione e rilevai alcuni silenzi su talune azioni a favore degli ebrei e alcune omissioni. Poco tempo dopo, durante una puntata della trasmissione “Sorgente di vita”, in onda su RAI 2, seguii un’intervista rilasciata dal direttore della Fondazione succitata (Marcello Pezzetti). Si parlò del rastrellamento. Furono mostrate immagini di oppressi e di persecutori. E si parlò anche della Chiesa Cattolica.

MAFERA: Che cosa venne detto?
Pezzetti affermò che era stata emanata una direttiva del Vicariato di Roma per non accogliere ebrei perseguitati alla ricerca di un riparo. Presentava come prova un’annotazione di due righe conservata in un diario dell’Istituzione Teresiana (via Clitunno, Roma).

MAFERA: Lei ha svolto delle ricerche in merito?
Sì. Prima ho svolto un’indagine tra coloro che ebbero diretti contatti con il Vicariato di Roma nel 1943-1944 (tra questi, anche il rettore della chiesa di San Rocco all’Augusteo). Poi ho raggiunto l’archivio della Congregazione vaticana per i Religiosi. Unitamente a ciò ho pure attivato la Postulazione dei Padri Gesuiti e un professore di Berlino che ha studiato l’archivio SS. Nessun riscontro. I risultati del mio lavoro hanno condotto a un’altra verità…

MAFERA: Quale?
Nel periodo dell’occupazione tedesca di Roma, l’attività dei delatori, e gli interrogatori a via Tasso, divennero purtroppo molto utili per catturare ebrei. Sulla base di una serie di informative, i nazisti entrarono con la forza dentro istituzioni cattoliche (es. Seminario Lombardo, Pontificio Istituto di Studi Orientali, il Russicum, l’abbazia di San Paolo fuori le Mura…) e nelle stesse abitazioni di sacerdoti (don Pietro Pappagallo, via Urbana 2, morto alle Fosse Ardeatine). A questo punto, senza alcuna direttiva scritta, si consigliò di proteggere gli ebrei ed altri ricercati nell’area urbana periferica (in alcuni quartieri, quali il Quadraro o San Lorenzo i nazisti cercavano di non entrare). Nel centro storico, infatti, ove era (ed è) posizionata anche l’Istituzione Teresiana, esisteva un concentramento nazifascista. Via Tasso non era (e non è) lontana. Inoltre, la Santa Sede intervenne per evitare atti considerati di guerra. Tra questi atti, secondo il codice militare di guerra tedesco, erano da considerare gli aiuti ai militari in fuga, e l’uso di radio ricetrasmittenti clandestine (una era dentro l’ospedale Fatebenefratelli dell’Isola Tiberina, un’altra presso il Seminario Lateranense).
Devesi aggiungere un altro fatto. Pezzetti non ha detto ai media che in realtà l’Istituzione Teresiana, nel periodo dell’occupazione nazista di Roma, dette rifugio a un totale di 34 ebrei.

MAFERA: Ha incontrato altre difficoltà?
Sì. Con riferimento al rastrellamento del 16 ottobre 1943, ho trovato varie informazioni. Grazie anche al Ministero dell’Interno, ad alcuni Istituti religiosi e a uno studioso: Dominiek Oversteyns, FSO. Come altri storici sanno, alcuni dati inerenti quella razzia non sono del tutto chiari. Esiste un vuoto documentale. Permangono interrogativi su determinate dinamiche. In tale contesto, nell’ambito dei molti incontri realizzati, mi rivolsi anche all’archivio storico della Comunità Ebraica di Roma. Incontrai Silvia Haia Antonucci. Conoscevo i suoi studi (con la prof.ssa Anna Foa), le sue pubblicazioni, l’attività didattica, le ricerche che stava realizzando. Insomma, andavo a colpo sicuro.
Una volta arrivato, però, Haia Antonucci dimostrò – di fatto – di non voler affrontare una comune ricerca. Rispondeva con brevi frasi. Faceva cadere il discorso. Spostava l’argomento su aspetti minori. E mi rimandava a uno storico cattolico (che ben conosco). Quando gli offersi in regalo un mio libro, non rivolse attenzione. Restai sorpreso. Per fortuna fu presente all’incontro una persona squisita. Si trattava di un anziano ebreo. Mi trattò molto bene. Con lui fu possibile un dialogo molto costruttivo. Mi raccontò dei suoi contatti con Yad Vashem (aveva segnalato un cattolico che aveva protetto ebrei). Addirittura mi parlò pure di un delatore dei nazisti che riuscì in seguito ad essere riconosciuto “Giusto tra le Nazioni”. Gli detti alla fine il mio biglietto da visita. E lui disse: “Me ne dia due, perché ci possono servire”. Rividi la Haia in occasione dell’Incontro Internazionale su Pio XII (2.10.14). Oversteyns gli stava regalando i risultati (stampati) di alcune sue ricerche. Quando mi vide, la Haia mi disse che non poteva fermarsi e andò via. Non fu possibile donarle la documentazione completa. In compenso ebbi un prezioso colloquio con una grande storica ebrea, la prof.ssa Anna Fòa.
MAFERA: Quindi, a volte, anche nel mondo ebraico, gli interlocutori possono modulare la loro interazione con tonalità diverse…
Sì, anche se questa dinamica si può trovare ovunque…

MAFERA: Altre difficoltà…
Ho avuto contatti con la Fondazione Museo della Shoah (Roma). Dovevo studiare i diari di Goebbels. Al termine del mio lavoro, attraverso un corriere, regalai copie di un mio libro a Pezzetti, a Yael Calò, a Gabriella Franzone. Non ebbi riscontro. Rividi la Franzone tempo dopo negli uffici del Tempio Maggiore ma si limitò a un cenno di saluto. Malgrado ciò, devo anche dire che ho il dono di avere per consulente personale sull’ebraismo una figura squisita. Si tratta del signor Alberto Caviglia. Persona rispettosa, corretta, cordialissima e molto libera mentalmente. Suo padre fece parte del gruppo che mise al riparo oggetti di valore della Sinagoga in un locale vicino alle mura vaticane.
L’ultimo aspetto “nodale” ha riguardato i miei contatti con il Centro “Primo Levi” di New York (15 West 16th Street New York, NY 10011).

MAFERA: Che è avvenuto in questa interazione?
Questo Centro comunicò di avere dei documenti che mettevano in discussione la figura di un dirigente della Pubblica Sicurezza, il dott. Giovanni Palatucci. Quest’ultimo operò a Fiume. Esistono diversi fascicoli che raccolgono testimonianze in merito a una sua opera segreta a favore di ebrei. Denunciato da delatori, fu arrestato dalle SS di Kappler e internato a Dachau (ove morì in tempi brevi). Lo Yad Vashem lo ha insignito del riconoscimento di “Giusto tra le nazioni” (1990). Ci fu poi una medaglia d’oro alle memoria (1995). E, in ultimo, l’avvio di un processo di beatificazione (2002). All’improvviso arrivano le “brutte notizie”…

MAFERA: Può indicarle…
Il Centro “Primo Levi”, attraverso alcuni suoi membri, denunciò (2013) il fatto che Palatucci era in realtà uno stretto collaboratore dei nazisti. Aveva perfino collaborato attivamente alla cattura di ebrei…

MAFERA: Un’accusa “pesante”…
C’è di più. La direttrice del Centro, Natalia Indrimi, sulla base dei documenti “in suo possesso”, ha ritenuto di scrivere al Museo della Shoah di New York, per denunciare la figura di Palatucci. E annota commenti molto duri: “”Giovanni Palatucci non rappresenta altro che l’omertà, l’arroganza e la condiscendenza di molti giovani funzionari italiani che seguirono con entusiasmo Mussolini nei suoi ultimi disastrosi passi”.

MAFERA: E Yad Vashem?
Yad Vashem ha avviato un esame del caso e ha concluso, nelle parole del prof. David Cassuto, che “non c’è nessuna novità, o presunta tale, che giustifichi un processo di revisione del riconoscimento di Giusto fra le nazioni conferito a Giovanni Palatucci il 12 settembre 1990”.

MAFERA: Prof. Guiducci, su questa vicenda Lei è intervenuto?
Sì. Ho inviato a New York una serie di lettere a Natalia Indrimi. Ne è nata una corrispondenza non facile.

MAFERA: In sintesi…
Ho chiesto di poter esaminare i documenti “trovati” dal Centro (in realtà la ricerca è stata fatta da ricercatori italiani presso l’Archivio di Stato e presso quello di Rijeka). Devo anche dire che questi atti sono già noti. La Indrimi risponde che potevo trovarli da solo presso gli archivi succitati. La risposta non è gentile. Domando quindi di poter leggere almeno quelli che il Centro considera più significativi. Anche qui porte chiuse. Gli atti, mi viene risposto, devono essere ancora tradotti. Ci vorrà del tempo. Saranno poi pubblicati in alcuni saggi. Mi permetto di chiedere perché non pubblicare subito i documenti in originale sul sito del Centro. Anche qui silenzio. È da questo momento che cominciano le mie perplessità…

MAFERA: Quali?
È una regola degli storici pubblicare prima i documenti (in originale, se possibile), e poi trarre le valutazioni.

MAFERA: Non è stato così?
No. Prima sono state trasmesse ai media diverse notizie con valutazioni molto negative su Palatucci. Poi la stessa Indrimi ha rilasciato interviste spiacevoli su Palatucci e ha scritto lettere dolorose (per le espressioni che ha usato). Però, quando più di uno storico ha rivolto quesiti alla Indrimi, quest’ultima ha rimandato all’uscita di saggi in materia. Questo fa pensare a motivazioni non in sintonìa con una logica storica, ma più vicine ad altro…

MAFERA: Situazione difficile…
Diciamo delicata, perché si sta parlando di un dirigente della P.S. fatto arrestare da Kappler e morto a Dachau (aveva 35 anni)…

MAFERA: A questo punto, come si è comportato?
Ho cercato di non far cadere l’interazione con New York. E ho segnalato alla Indrimi dei testimoni ebrei che hanno segnalato l’opera di Palatucci. Indrimi mi ha risposto che “si tratta di biografie”. Ho replicato: no, sono dati tratti da fascicoli. Inoltre le ho chiesto perché nelle sue risposte (sempre telegrafiche) tace sulla documentazione conservata presso lo Yad Vashem, sui resoconti di studiosi ebrei noti per essere persone “poco diplomatiche” (es. Settimio Sorani, responsabile della Delasem di Roma). A questo punto la Indrimi, prima mi scrive che “veramente non trovo questo scambio utile” (sic), poi – di fatto – chiude la porta.

MAFERA: Le posso chiedere un parere su questa vicenda?
Quello che colpisce è il fatto che non si tiene conto di più evidenze storiche.

MAFERA: Un cenno…
Non fu, ad esempio, lo zio di Palatucci (che era vescovo) a parlare per primo del nipote, nel 1952. Fu, al contrario, Rafael Cantoni (1896-1971) nel 1945 (II° congresso ebraico mondiale, Londra). Indicò cinquemila ebrei salvati. Palatucci, poi, non era considerato un fiduciario. I nazisti lo controllavano quotidianamente (a Berlino sono diversi i riferimenti a Palatucci, non si conserva solo un telex di Kappler). Questo dirigente della P.S. non ebbe in odio gli ebrei: era innamorato di una donna ebrea. Non firmò un atto di arresto verso alcuni ebrei (un altro firmò per lui; e comunque sulla data c’è confusione). Non è vero che Palatucci era contento di lavorare con dei superiori antisemiti: chiese più volte il trasferimento. E le evidenze continuano: ho messo in luce (grazie alla Prefettura di Trieste e al Ministero dell’Interno) un percorso di ricerca ove è documentata l’interazione tra Palatucci e alcuni dirigenti (e non dirigenti) della P.S. di Trieste che si opponevano ai nazisti (e che furono arrestati e deportati). Si ritrovano, inoltre, nella corrispondenza di Palatucci (soggetta a censura) alcune frasi in codice. Ci sono poi delle considerazioni generali…

MAFERA: Quali?
Una prima considerazione è che, nel periodo più tragico della guerra, chi voleva aiutare degli ebrei doveva farlo seguendo una strategia. In genere si sceglievano contemporaneamente due ruoli: quello ufficiale e quello nascosto. Tale linea fu seguita, ad esempio, da Giorgio Perlasca (“Giusto tra le Nazioni”, 1989). Fu un fascista convinto. Combattè come volontario in Etiopia. Poi in Spagna, a fianco dei nazionalisti di Franco. Salvò un alto numero di ebrei in Ungheria fingendo di essere il console generale spagnolo. Oskar Schindler (“Giusto tra le Nazioni”, 1993) protesse centinaia di ebrei, mentre – contemporaneamente – era iscritto al partito nazionalsocialista. Mangiava e beveva con i nazisti. Angelo De Fiore (“Giusto tra le Nazioni”, 1969) era, in apparenza, un ligio funzionario della Questura di Roma, agli ordini di Pietro Caruso (poi fucilato). In realtà, manomise i documenti riguardanti molti ebrei, falsificò atti, passò informazioni ai perseguitati. L’amante olandese di Kappler (Alice van Wandel), da una parte faceva gli onori in casa Kappler, nell’appartamento sulla via Salaria, dall’altra passava informazioni agli Alleati…

MAFERA: La seconda considerazione?
Bisogna imparare a studiare i documenti. Se leggiamo gli atti nazisti e fascisti riguardanti Fiume (che conosco) troviamo determinate evidenze. Se, contemporaneamente, si percorrono anche altre strade (testimonianze, memorie, archivi privati, atti segreti dello spionaggio…), si possono trovare dati molto diversi. Per anni, ad esempio, ho letto dei rapporti di spie naziste che da Roma scrivevano a Berlino. In alcuni casi dovevano scrivere “comunque” qualcosa e, insieme, dovevano stare attente a non incorrere nel reato di disfattismo. Penso pure ai documenti desecretati in U.S.A.. In molteplici casi sono stati smentiti da altri atti, scritti dagli stessi statunitensi.

MAFERA: Prof. Guiducci, vuole sottolineare qualcosa al termine del nostro colloquio?
Prima di tutto ritengo molto importante l’interazione tra storici. Possono anche emergere idee diverse, ma è essenziale far circolare i documenti. Specie quando si esprimono pubblicamente giudizi pesanti su persone morte in un lager. Si evita in tal modo di non cadere nella trappola dell’ideologismo e in quella del politicismo.
Penso, poi, che le tanti celebrazioni della Shoah debbano essere anche in grado di operare un passaggio: dalla morte alla vita. La memoria è un dato essenziale, certamente. Però, è anche necessario realizzare un progetto di vita con tutti gli uomini di buona volontà. Per questo motivo, occorre incontrarsi. Conoscersi. Individuare dei temi condivisi. Superare le posizioni “di difesa”. Anche le nuove generazioni del mondo ebraico spingono (me ne sono accorto in più occasioni) per favorire un’apertura al mondo che cambia, alle realtà nuove, a tutte quelle situazioni che generano speranza. In tal modo, dal dolore può nascere una spinta a vivere in pienezza una vita sociale. Senza steccati. E senza barriere.

Lascia un commento

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.