TRA FAMIGLIA E UNIONI VARIE : Un percorso storico

 

IL DOTTOR CARLO MAFERA INTERVISTA LO STORICO

PROF. PIER LUIGI GUIDUCCI

Nel pluralismo di idee che caratterizza l’attuale periodo, si arriva, in taluni casi, a perdere di vista il percorso storico che ha condotto – alla fine – al riconoscimento di taluni valori sociali. In tal senso, anche il concetto di matrimonio tra un uomo e una donna, e il   rapporto famiglia-matrimonio, esprimono un “qualcosa” che non è sorto oggi. Ma che, al contrario, ha affrontato le intemperie di itinerari secolari. In questo migrare del tempo, l’umanità è stata in grado di individuare e di sperimentare diverse variabili applicabili alle relazioni sessuali, e possibili forme di co-esistenza tra due (o più) soggetti. Si è arrivati, alla fine, a riconoscere nella famiglia fondata sul matrimonio un valore-chiave. Può essere allora significativo, con l’aiuto di uno storico, rivedere ciò che è avvenuto in epoche segnate da tanti volti. E capire perché, a un certo punto, ci si è convinti che esisteva una realtà da tutelare.

MAFERA: Prof. Guiducci, l’esperienza di “coppia”, tra un uomo e una donna, quali caratteristiche ha avuto nel cammino delle prime civiltà?

Non è possibile tentare una sintesi. Esistono molteplici variabili (temporali, ambientali, culturali, politiche, economiche, demografiche…). Qualche autore tenta di semplificare e rimanda genericamente a rapporti che non sono relazioni. Tali esperienze evidenzierebbero solo dinamiche sessuali. Per altri studiosi sono da tener presenti elementi che si collegano alla sessualità e alla trasmissione della specie. Ci sono, poi, coloro che decodificano alcuni comportamenti secondo una logica di conquista e di proprietà. In tale contesto, un percorso di ricerca è costituito dall’attenzione al mondo dei sentimenti (sentimento: deriva dal latino sentire, percepire con i sensi). Si possono, in tal modo,  studiare aspetti della condizione cognitivoaffettiva, o sviluppare approfondimenti sul “senso (sentimento) di sé” (coscienza della propria esistenza come complesso dei moti spirituali e corporei). Il cammino di studio prosegue…

MAFERA: Con riferimento all’antichità, esistono lavori che trattano anche di relazioni incestuose riconosciute in modo pubblico. Che ne pensa?

In linea generale, l’incesto non sembra trovare consensi. Sul piano della ricerca scientifica, alcuni autori si sono concentrati soprattutto su vicende legate all’Egitto. In questo antico regno, l’incesto non era praticato dalla popolazione. Qualche storico scrive che non esistevano proibizioni riguardo a rapporti tra fratelli. Ma dove sono i riscontri? La situazione cambiava, invece, quando si trattava della famiglia del Faraone.

 

MAFERA: Era una questione di sangue (evitare contaminazioni impure)?

No, esistono altri aspetti. Il trono si ereditava per via femminile. La “Grande Consorte Reale” trasmetteva il proprio “sangue divino” alla principessa ereditaria, insieme al diritto al trono. Il principe ereditario, designato dal Faraone, riceveva il suddetto diritto dopo un complesso cerimoniale.

 

MAFERA: Quale cerimoniale?

La prima fase riguardava le nozze divine. Queste avvenivano tra la principessa ereditaria e il dio che era adorato dalla dinastia al potere. Seguivano poi le nozze regali della principessa e futura regina con il principe ereditario. Infine si arrivava all’atto sessuale (con il conseguente mescolamento di sangue). Attraverso tale cerimoniale, lo spirito del dio passava dal corpo della principessa in quello del principe: il futuro Faraone.

MAFERA: Una dinamica precisa…

Sì. Il Faraone, alla nascita della principessa ereditaria, le assegnava un marito: uno dei principi ereditari. In assenza di fratelli, la prendeva in sposa egli stesso. Alcuni Faraoni sposarono le sorelle o le figlie, ma nel secondo caso non ci sono prove che il matrimonio fosse consumato.

MAFERA: Tale prassi fu confermata nel tempo?

No. Non resse davanti ai molti problemi che creava (emofilia e altro). La salvaguardia del principio dinastico fu tutelata in altro modo. In tempi successivi, nel mondo greco, il mito di Edipo divenne il tentativo di razionalizzazione di un costume storicamente superato ma di cui si conservava il ricordo.

MAFERA: Nel mondo greco, a un certo punto, si utilizzò anche la presenza delle etère…

Sì. La etèra svolgeva la funzione che aveva la babilonese naditu, la giapponese oiran e la coreana kisaeng. Erano donne che vivevano in ambienti di alto livello. Oltre a prestazioni sessuali offrivano compagnia. Tra alcune etère e determinati clienti si realizzarono delle relazioni di lungo periodo.

MAFERA: Erano delle persone particolari…

Sì. Avevano notevoli capacità nell’arte (dalla danza alla musica). Possedevano talenti fisici e intellettuali. A differenza della maggior parte delle altre donne delle polis greche, le etère avevano ricevuto o si erano procurate un’educazione. Erano quindi molto colte. Costituivano pure l’unica classe di donne nella Grecia antica che aveva un accesso e un controllo indipendente a considerevoli quantità di denaro.

MAFERA: Prof. Guiducci, certamente in ambito storico, le convivenze, le unioni di fatto, hanno trovato un maggiore sviluppo…

Queste scelte, sul piano storico, hanno origini remote. Trovano motivazioni di ordine pratico. Nell’antica Roma, la convivenza tra un uomo e una donna era considerata un fatto normale. Non c’era riprovazione. Si usavano, al riguardo, due termini: concubinatus (giacere insieme), e contubernium (vivere nella medesima tenda, abitare nella stessa casa). I componenti della convivenza venivano indicati come concubina o contubernalis. Nelle iscrizioni funebri i conviventi erano qualificati come marito, uxor, coniunx. Si usavano pure  i termini di amicus e amica (non dissimili dagli attuali “compagno” e “compagna”).

MAFERA: A questo punto, si raggiunge un equilibrio?

Non proprio. Nel mondo romano alcune scelte erano condizionate dai divieti esistenti. Lo ius connubi, la capacità di contrarre matrimonio, era destinato all’inizio solo a soggetti della stessa classe sociale (principio poi modificato con la Lex Canuleia de Conubio Patrum et Plebis, 445 a.C.).  Il legionario non poteva sposarsi. I membri del senato non potevano contrarre matrimonio con liberti. I vedovi (specie se aristocratici) ricorrevano alla convivenza per rispetto formale verso la moglie defunta e per i figli di primo letto. Per le classi inferiori la legislazione rendeva difficile (se non impossibile) la celebrazione di matrimoni legali. Alle donne che esercitavano mestieri diffamanti (prostitute, attrici, ostesse) era vietato il matrimonio.

MAFERA: Si può allora parlare di una realtà articolata?

A mio avviso, sì. Però, in seguito, si avvertì l’esigenza di superare un sistema condizionato da divieti per arrivare a fissare in modo organico una tutela più estesa verso coloro che volevano sposarsi (anche per proteggere i figli).

MAFERA: Emerge quindi un’istanza: un più ampio riconoscimento della pubblica autorità…

Sì. Tale riconoscimento è diverso da quello “di fatto” (convivenza). A molte persone non bastava di vedere “accettato” il proprio status. Volevano anche arrivare a un livello di responsabilità sponsale protetto, aiutato dallo Stato (matrimonio).

MAFERA: Si apre la strada alla normativa sul matrimonio…

In realtà, tutto il periodo antico ci trasmette disposizioni sul matrimonio (Codice di Hammurabi (sec. XVIII a.C.). Ma sono norme dettate soprattutto dalla preoccupazione di tutelare gli interessi patrimoniali. Quindi, in un certo senso, prima si salvano le proprietà, poi ci si accorda sulle nozze.

In seguito, il punto focale è centrato non sui beni temporali (pur importanti) ma sui nubendi. L’attenzione verso quest’ultimi si manifesta con il riconoscimento delle loro volontà, in presenza di testimoni.

Per tale motivo il matrimonio romano ha due requisiti-chiave: il consenso (non solo iniziale, ma duraturo, continuo; affectio maritalis), e il vivere insieme dei coniugi nella stessa dimora. In modo effettivo. Stabile.

In tale contesto, il giurista romano Modestino (III° secolo d.C.) affermava che nuptiae sunt coniunctio maris et feminae et consortium omnis vitae, divini et humani iuris communicatio (“le nozze sono l’unione tra uomo e donna implicante un consorzio di tutta la vita, retta dal diritto divino e umano”).

MAFERA: Il matrimonio romano ha ulteriori caratteristiche?

È monogamico. Anche questo è un aspetto che pone in risalto l’attenzione alla persona dell’altro. La coppia di coniugi viene distinta, attraverso il rito di pubblica valenza, come una famiglia, centro di imputazione di diritti e di obblighi, tra i coniugi, e tra questi e il mondo esterno.

MAFERA: Non si riprendono prassi di altre culture…

Nel mondo romano si ritrovano la prostituzione, il concubinato, il sesso extraconiugale, il sesso omosessuale, il sesso con gli schiavi. Però, al matrimonio erano riservate delle specifiche caratteristiche. E norme di tutela. Questo è un dato non debole. Emerge, cioè, l’esigenza di indicare “un modello” positivo da seguire (il matrimonio). Unitamente a ciò, si vietava la poligamia (dal gr. πολύς “molto” e γάμος “nozze”). Il divieto seguiva una concretezza romana: una molteplicità di rapporti affettivo-sessuali non poteva consentire un’attenzione specifica a una singola persona.

 

MAFERA: Quale imperatore si distinse in materia di diritto matrimoniale e della famiglia?

Cesare Ottaviano Augusto. Nel 17 a.C. propose una legge molto rigorosa sul matrimonio. Fu avversata. Solo diversi anni dopo, Ottaviano fece presentare dai consoli M. Papio Mutilo e Q. Poppeo Sabino la Lex Papia-Poppaea (9 d.C.). Questo provvedimento, unito alla Lex Iulia de Maritandis Ordinibus (18 a.C.) e alla Lex Iulia de Adulteriis Coercendis (17 a.C.), cercò:

– di non favorire il diffondersi del celibato (i celibi non potevano ricevere una hereditas o un legatum);

-di incoraggiare e favorire il matrimonio (le vedove entro un anno dalla morte del marito dovevano risposarsi; le donne divorziate dovevano risposarsi entro sei mesi dal divorzio; in questo periodo esse non erano soggette a sanzioni. La Lex Papia allungò poi i termini succitati);

-di sostenere la natalità (secondo la Lex Papia Poppaea, un candidato al matrimonio che aveva parecchi figli era preferito a uno che ne aveva pochi);

-di punire l’adulterio (era punito con l’esilio).

 

MAFERA: Quale fu il passo successivo?

Gli studiosi seguono, al riguardo, più piste di ricerca. Sembra di individuare, però, una convergenza sul fatto che il matrimonio, dopo aver superato la fase “naturale”, quella “patrimoniale”, e quella “coniugale”, entra in una fase sempre più “sociale”. Diventa, cioè, un evento che coinvolge nubendi, famiglie e comunità locale. Da qui l’importanza di una celebrazione sempre più “pubblica”.

 

MAFERA: In tale cammino, quale è stato il contributo offerto dalla Chiesa Cattolica?

Affermando che il matrimonio è un Sacramento (Agostino, De nuptiis et concupiscientia, I, X), la Chiesa ha evidenziato la sua forza santificante (Agostino, De bono conjugii, XXIV). I ministri del matrimonio sono gli sposi. Essi assumono il proprio impegno davanti a Dio. Il celebrante rimane un testimone. Esistono poi dei dati molto interessanti. Nelle catacombe, leggendo alcune iscrizioni, si percepisce con chiarezza una testimonianza cristiana di amore coniugale. In quelle di San Callisto (Roma) sono ancora oggi individuabili due dediche:

Celso Eutropio perse la giovane moglie appena trentenne, dopo aver vissuto insieme quasi undici anni di matrimonio felice. Sulla lapide sepolcrale scrive che il tempo trascorso con lei era stato un paradiso: “Celso Eutropio a sua moglie… che visse sempre con me senza mai procurarmi alcun dispiacere. La sua vita fu di 31 anni, 9 mesi e 15 giorni. Trascorse con il marito 10 anni e 9 mesi… Benemerita in pace”.

Probiliano esalta l’onestà e la bontà della moglie: “Probiliano alla sua consorte Felicita, della quale tutti i vicini conobbero la fedeltà, l’onestà dei costumi e la bontà. Negli otto anni di assenza di suo marito mai lo tradì. Fu sepolta in questo luogo santo il 3 gennaio”.

 

MAFERA: Attualmente, rispetto al cammino storico compiuto, si può parlare di un procedere a ritroso?

Nell’attuale periodo, si va prendendo consapevolezza di un lento  depauperamento del matrimonio. Non in senso legale. Ma in taluni aspetti che riguardano anche il mondo interiore delle persone.

 

MAFERA: Prof. Guiducci, cosa chiedono allo Stato le coppie di fatto?

Riconoscimenti per l’assistenza reciproca, diritti successori, la reversibilità del trattamento previdenziale, la possibilità di subentrare al partner nel contratto di locazione. Tutto questo come diritto di coppia e non solo individuale.

 

MAFERA: Perché allora non si sposano?

Una cauta impressione è che, forse, diverse coppie si concepiscono come fortemente individualizzate e autonome. Hanno interiorizzato la visione individualistica propria della nostra società. Cercano una relazione segnata da autonomia. Da libertà personale. Si considera il matrimonio come un’istituzione vuota e superata. E ci si percepisce non come alternativa ad esso, ma come realtà evolutiva rispetto al matrimonio stesso.

 

MAFERA: Può chiarire ulteriormente?

Il discorso è articolato. Mi sembra, intanto, di intravedere una crisi delle istituzioni. L’uomo di oggi, figlio dell’illuminismo, rivendica la propria autonomia rispetto ad ogni istituzione di cui fa fatica a capire il ruolo positivo. Autonomia anche dalla legge morale e da quella civile che non va oltre il ruolo di strumento utile per una convivenza sociale capace di far convivere il pluralismo. Lo Stato diventa il notaio delle scelte individuali.

Unitamente a ciò, si percepisce una fatica a compiere scelte definitive. Non è solo questione di egoismo. Affiora una cultura della provvisorietà. Fa problema il fatto che una relazione possa essere per sempre.

Penso poi a un punto. Il matrimonio in passato era anche una forma di protezione della donna che dipendeva economicamente dal marito. L’istituzione doveva fornire due certezze: la paternità, e dare sicurezza alla donna e al figlio. Oggi tutto questo è più sfocato (la donna in più casi lavora, spinge verso una propria autonomia), e il matrimonio deve cercare altrove le ragioni del proprio esistere.

Unitamente a ciò, si possono scorgere anche delle motivazioni pratiche (i tempi lunghi dell’università, le difficoltà economiche, la fatica di trovare un impiego); il venir meno del legame tra matrimonio, sessualità e fecondità. La sessualità è vissuta in se stessa, a prescindere da atti pubblici di coniugio. Il matrimonio è una scelta successiva e autonoma. E la fecondità è un altro mondo sganciato dai primi due. Esiste pure un certo “familismo” che fa rimanere in casa i figli per un periodo di tempo non breve.

 

MAFERA: Prof. Guiducci, oggi esiste anche un’altra situazione open: il matrimonio tra omosessuali…

Le persone omosessuali sono state, in più occasioni, destinatarie di commenti duri e senza rispetto. Questo è un fatto negativo. Quello che chiedono le coppie omosessuali è il riconoscimento di una serie di diritti: la possibilità di lasciare la propria eredità al partner, il vincolo a interpellare il partner da parte dei medici in caso di malattia dell’altro, la pensione di reversibilità, la possibilità di subentro nell’affitto dell’abitazione…

Tutto ciò non necessita di un atto matrimoniale. Si può percorrere la strada di un accordo registrato presso un notaio.

In tale contesto, la storia e il diritto insegnano che l’uguaglianza tra i cittadini deve essere sempre commisurata alle differenze che la realtà stabilisce fra loro. I diritti dei bambini non sono quelli degli anziani, i diritti delle donne sono diversi per alcuni aspetti da quelli degli uomini. E questo non significa che non godano di una uguaglianza di fronte alla legge: un’uguaglianza che tiene conto delle possibilità differenti, ma non per questo meno preziosa e positiva.

 

MAFERA: Superando le conflittualità inutili, quale riflessione rimane?

L’identità maschile e quella femminile sono realtà tipiche, complesse e aperte alla trasmissione della vita, differenziate biologicamente sulla base del corredo cromosomico, e anatomicamente sulla base dei caratteri sessuali.

Tra uomo e donna esistono delle differenze nella prospettiva di una complementarietà: il rapporto di coppia così inteso porterà alla crescita della propria identità e alla scoperta di quella di coppia.

 

MAFERA: L’11 gennaio del 2013 la Corte di Cassazione ha pronunciato una sentenza su un complesso caso di affidamento familiare. Protagonisti: un bambino, un padre, una madre omosessuale e la sua compagna convivente…

La sentenza ha confermato l’affidamento del figlio alla madre con cui vive. Ha poi regolamentato le visite del padre, in passato accusato di episodi di violenza nei confronti della madre. Quello che emerge è che il giudice non ha ritenuto che la relazione omosessuale vissuta attualmente dalla madre, potesse essere un motivo sufficientemente valido per interrompere il già consolidato legame madre-figlio. In sintesi: meglio due donne che un padre violento. Alcuni hanno letto in questa condivisibile sentenza una possibile apertura verso l’adozione da parte di coppie omosessuali. Ma su questo punto possono essere utili alcuni chiarimenti.

 

MAFERA: Un cenno…

I bambini che vanno in adozione provengono, di frequente, da realtà di abbandono. Sono stati trascurati. Istituzionalizzati. Vittime (talvolta) di violenze. La famiglia, e in primis la coppia che li accoglie, ha il compito di favorire, per quanto è possibile, il recupero da queste esperienze sfavorevoli. Un impegno delicato e non facile. Ciò conduce a rivedere con attenzione alcuni aspetti riguardanti la crescita del minore.

 

MAFERA: Quali?

Crescere, potendo godere della presenza di un padre e di una madre, consente al bambino di conoscere dal vivo cosa vuol dire essere uomo e donna e, a partire da ciò, poter delineare nel tempo una solida identità maschile o femminile. Non solo, il piccolo al tempo stesso potrà fare esperienza della relazione tra un uomo e una donna, capace di accogliere e valorizzare la differenza dell’altro: ecco il fondamento della generazione umana. Due genitori dello stesso sesso per definizione non possono fornire al bambino questa esperienza di base, e quindi egli sarà gravato da un compito psichico aggiuntivo.

 

MAFERA: Nell’ottobre del 2014 il Sinodo dei Vescovi ha affermato che le persone omosessuali hanno doti e qualità da offrire alla comunità cristiana…

Si, è vero. La Chiesa condanna tutti gli atti di violenza, inclusi quelli contro gli omosessuali, invitando all’accoglienza, al rispetto. La riflessione, in particolare, si è centrata sulla persona dell’omosessuale in sé. Capace di mutuo sostegno, di sacrificio. Inoltre, i vescovi hanno rivolto un’attenzione particolare verso i bambini che vivono con coppie dello stesso sesso, ribadendo che al primo posto restano le esigenze e i diritti dei piccoli.

MAFERA: In conclusione, il concetto di famiglia basata sul matrimonio continua ad essere un valore?

Se si riesce a passare tra due estremi, l’idealismo e il contrattualismo, la realtà del matrimonio acquista un significato forte. In essa vi si ritrovano dei punti-chiave: l’essere adulti, la capacità di amare, il progetto di vita, la relazionalità nella comunione.  È in questo contesto che si comprende il volto attuale della famiglia. Superati i condizionamenti di precedenti periodi (il pater familias, il clan, le politiche dei casati, i criteri per conservare integro il patrimonio, ecc.), la famiglia ha davanti a sé delle prospettive importanti. Legate alla parità dei coniugi, a una nuova organizzazione della società, e a una migliore conoscenza della stessa psiche umana. Tale realtà può rischiare di passare attraverso dei campi minati.

 

MAFERA: Quali?

Penso, ad esempio, a impegni matrimoniali assunti in modo affrettato. Senza una reale disposizione alla corresponsabilità, all’attenzione all’altro in tutte le sue esigenze. Senza una vera convergenza su intese essenziali. In questi casi, la separazione è dietro la porta.

In tale contesto, Papa Francesco si è rivolto (18.10.2014) al Sinodo dei vescovi sulla famiglia manifestando una linea di comprensione. Di sostegno. Alcune sue frasi rimangono significative di una linea pastorale:

“La Chiesa non ha paura di rimboccarsi le maniche per versare l’olio e il vino sulle ferite degli uomini”. È una Chiesa “che non guarda l’umanità da un castello di vetro per giudicare o classificare le persone”.

“Questa è la Chiesa Una, Santa, Cattolica, Apostolica e composta da peccatori, bisognosi della Sua (di Dio) misericordia “.

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