Come cambia la politica ai tempi del coronavirus: intervista di Carlo Mafera al professor Massimo Crosti, uno dei più grandi esperti di filosofia politica

 

Professore, un po’ di tempo fa, pensavo di intervistarla sul centrismo, sui vari tentativi di riproporre una prospettiva centrista, ma, adesso, questo tema mi appare lontano, l’emergenza coronavirus ha cambiato l’agenda della discussione. Sta veramente cambiando tutto, non crede?
Come sempre, non sono le chiacchiere a produrre i cambiamenti e neanche i discorsi seri, ma le crisi che accompagnano e caratterizzano la storia dell’umanità. E l’emergenza coronavirus, come l’ha chiamata lei, lo sta facendo alla grande. Ha spazzato via il chiacchiericcio della politica italiana, le schermaglie fra maggioranza e opposizione, su cosa farà Renzi, se farà o meno cadere il governo, cosa che, diciamolo, non avrebbe mai fatto, a meno che non fosse stato attraversato da un momento di follia autodistruttiva, e ha imposto problemi nuovi. Questioni che c’erano già prima, in realtà, ma, che, in una situazione come quella attuale, si impongono con ben altra forza. Quando scoppia una crisi di questa portata, nessuno può far finta di nulla, nessuno può eludere le questioni, parlando d’altro, come avviene spesso nella politica italiana.
Come si sta comportando il governo italiano, secondo lei?
Il governo è tornato al centro della scena, perché tutti guardano alla gestione della crisi da parte del governo, mentre il ruolo dell’opposizione è ridimensionato, interessa meno, molto meno quello che dice, almeno per il momento, poi andando avanti vedremo. Certo, l’opposizione sostiene che si dovesse fare di più, che si dovrebbe fare di più. Ma se pensiamo a come si stanno comportando gli altri governi, non possiamo certo dire che si stanno comportando meglio di quello italiano.
Si riferisce alle dichiarazioni di Ben Johnson e a quelle di Trump?
Anche, ma non in particolare, pensi a quello che sta succedendo in Spagna, e temo che vedremo altre situazioni difficili, molto difficili. Vede, si possono dire molte cose, ma affrontare una situazione nuova, combattere un virus di cui si sa poco, anche gli scienziati sanno poco, che per settimane, se non mesi, ha girato in mezzo a noi senza che lo sapessimo, è difficile, molto difficile. Certo, non bisognerebbe lasciarsi cogliere impreparati, ma questo riguarda un po’ tutti i governi, non soltanto il nostro. Il governo, il nostro governo si muove sulla base degli input che vengono dal mondo scientifico, adattando, di volta in volta, la strategia sulla base dell’andamento della situazione. Questo direi è un primo aspetto, la componente sanitaria della crisi è in mano ai tecnici che decidono cosa fare. Se dicono zona rossa, il governo crea la zona rossa, se dicono Italia zona protetta, il governo trasforma l’Italia in zona protetta. Chiaramente, la preoccupazione è quella di evitare che il contagio si diffonda nelle grandi città, perché se avvenisse a Roma o a Milano quello che è successo in alcuni centri del Nord, la situazione sarebbe ingestibile. Come lo sarebbe se succedesse al Sud, perché al Sud mancano le strutture per gestire una crisi di questa portata. Detto questo, cioè partendo dal fatto, si può fare una prima riflessione di carattere generale.
Vale a dire?
Ci rendiamo conto tutti adesso, di quanto sia importante il pubblico, dopo decenni di tagli alla sanità, di glorificazione del privato a danno del pubblico. Ridurre il pubblico significa indebolire i cittadini, perché i cittadini hanno come riferimento, nelle situazioni di crisi, il pubblico, non il privato, che persegue il proprio interesse particolare, a volte con azioni di beneficienza, lodevoli quanto si vuole, per carità, ma che non modificano il quadro complessivo. È così anche nelle situazione ordinarie, certo, perché anche nelle situazione ordinarie il pubblico è decisivo per i cittadini, ma, nelle crisi, questo diventa ancora più evidente, e ce ne accorgiamo tutti meglio, molto meglio.
Il nostro sistema sanitario è uno dei migliori del mondo, ma sta soffrendo molto, d’altra parte nessuno poteva prevedere una situazione di questo tipo…

 

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Il dottor Carlo Mafera intervista il prof. Massimo Crosti sulla politica al tempo del Coronavirus
Su questo nessun dubbio, i tagli si fanno sentire. A Roma, c’erano due ospedali come il Forlanini e il San Giacomo. Oggi, non ci sono più. Chi li ha chiusi e perché sono stati chiusi? Oggi, il Forlanini, un centro di eccellenza, sarebbe stato di grande importanza, di grande aiuto. È stato chiuso durante la presidenza di Zingaretti alla Regione Lazio. Ma, stando a quello che ha dichiarato un ex primario del Forlanini, in una recente intervista, prima ci avevano provato in tanti, poi, venute meno alcune resistenze, alla fine è stato chiuso. Per non parlare del San Giacomo, chiuso nel 2008, un vero scempio nel nome della razionalizzazione della spesa sanitaria. Direi che il tema dell’importanza del pubblico è il primo a essere rilanciato, a tornare al centro della discussione. E speriamo non soltanto della discussione, ma anche dell’azione politica, perché possiamo discutere quanto vogliamo ma, senza l’azione politica, le discussioni, questo tipo di discussioni, rimangono lettera morta.
Possiamo dire che torna la politica, torna l’esigenza di una politica all’altezza dei problemi?
Certo, in momenti di crisi, si guarda alla politica, ci si rende conto di quanto sia importante. Vede, oltretutto l’emergenza odierna ci indica, con grande forza, che i problemi non sono affrontabili al livello del solo Stato nazionale. Le frontiere, per certi aspetti, non ci sono più. Non ci sono per i problemi ambientali, non ci sono in un mondo dove si spostano milioni di persone, non ci sono per i grandi movimenti di capitali che sfuggono alla tassazione. Un singolo Stato può fare poco, perché, se tentasse di tassarli adeguatamente per acquisire risorse, si trasferirebbero in un altro Paese. Non ci sono per le emergenze sanitarie di questo tipo. Un virus, che un tempo sarebbe rimasto confinato in uno spazio molto delimitato, oggi, con la mobilità delle cose e delle persone, sta infettando il mondo. E che senso ha che un Paese si impegni nella lotta contro un’emergenza come quella che stiamo vivendo e un altro non lo faccia? Occorre coordinarsi, altrimenti il problema si contiene da una parte e si espande da un’altra, e chi lo ha combattuto rischia di ritrovarselo davanti ancora una volta.

Ma non crede che, comunque, i cittadini, realisticamente, abbiano come riferimento essenziale sempre lo Stato?

Certo, ne sono convinto, aggiungo che quando parliamo di Stati, parliamo di entità molto diverse fra loro, alcune delle quali, tipo Stati uniti e Cina, hanno una piena sovranità, altri meno, molto meno. Ma sui grandi problemi occorre una cabina di regia, che coordini gli sforzi e metta a punto politiche complessive, ferme restando le specificità nazionali, perché i problemi non si presentano allo stesso modo nei diversi contesti. Può piacere o meno, si può anche rimpiangere il passato, se si vuole, ma noi stiamo andando verso la formazione di istituzioni rinnovate, o nuove, a livello sovranazionale per la gestione dei problemi globali. Quando e come, nessuno lo sa, ma è inevitabile che ciò avvenga, a meno che non si voglia passare da una crisi a un’altra, di volta, in volta, improvvisando, sperando che vada bene.
Adesso, che si tratta di mettere a punto politiche anti-crisi, si è aperta un confronto con l’UE, e stesso tema europeo viene rilanciato…
Certo, come non avrebbero potuto fare tutti i dibattiti, le discussioni, le idee, le proposte, i libri del mondo. Soprattutto stanno cambiando alcune cose. Ecco che, in seguito alla crisi, il patto di stabilità viene sospeso, ecco che si può ricorrere agli aiuti di Stato, ecco che si torna a parlare di Eurobond…. Un’Europa che, ancora una volta, a distanza di pochi anni, si trova a dover gestire una crisi che non si è originata in Europa, ma in Cina, come non si era originata in Europa la crisi del 2008, ma negli Stati Uniti. Certamente, ci sono resistenze, non è un Unione federale, con un centro autonomo rispetto agli Stati, contano ancora gli Stati, ma qualcosa si sta muovendo. Anche per il futuro dell’Unione, quello che stiamo vivendo, è un momento decisivo. La crisi attuale può favorire la costruzione di una nuova Unione, come dare vita a un ulteriore disgregazione, soprattutto a un ulteriore perdita di credibilità di fronte ai cittadini, in particolare di quei Paesi più colpiti.

Una recessione pesante a livello mondiale, nessuno si salva da una situazione di questo tipo…

 

Una crisi di questa portata è drammatica ovunque si manifesti, ma le conseguenze non sono uguali ovunque si manifesti. Noi abbiamo il dato tragico della Lombardia, e la Lombardia è il polmone dell’Italia, l’area strategica sotto il profilo economico. E dobbiamo temere le conseguenze di questo stato di cose. Ma pensi cosa potrebbe accadere, quali conseguenze potrebbero esserci se si verificasse una crisi grave negli Stati Uniti, il polmone dell’Occidente. Per me, dovrebbe essere la più grande delle preoccupazioni, fermo restando che di preoccupazioni ce ne sono altre e di rilievo, ma, sotto il profilo geopolitico, questa dovrebbe essere la preoccupazione maggiore.

Non pensa che i sistemi democratici si stiano dimostrando impreparati, comunque meno attrezzati di un sistema autoritario, come quello cinese, a gestire la crisi che stiamo attraversando?

Partiamo dal fatto che il virus è arrivato dalla Cina, e la cosa dovrebbe farci riflettere sulle condizioni di vita, sulle condizioni igienico-sanitarie di quell’immenso Paese. E questo è un primo elemento. Il secondo è che il ruolo svolto dalle autorità cinesi è tutto da verificare. Sapevano, non sapevano, hanno lanciato l’allarme in ritardo? Sappiamo che il medico che aveva lanciato l’allarme ha passato i suoi guai, che è stato trattato come un nemico della nazione, prima di lasciarci la pelle proprio per il coronavirus. Certo, di fronte a una crisi di questa portata, un governo autoritario può essere più rapido nell’aggredirla, questo è indubbio, non deve fare i conti con l’opinione pubblica, con l’opposizione, con i sindacati, con il mondo imprenditoriale, e i cittadini obbediscono se non vogliono finire in galera, quando va bene, nella migliore delle ipotesi. C’è, però, il rovescio della medaglia. Quando un sistema autoritario sbaglia, non ha la stessa possibilità di auto-correggersi come può fare un sistema democratico, anche questo è indubbio. E non è che i sistemi democratici non abbiano strumenti, li hanno. Bisogna vedere se li usano e come li usano. Dipende da una serie di fattori, dalla strutturazione del sistema istituzionale, che può ritardare o velocizzare le decisioni, dalla qualità della classe dirigente, dalla pressione dell’opinione pubblica.
Pessimista sulla capacità di gestire questa crisi e di uscirne?
No, non lo sono mai, ci sono strumenti e ci sono energie, pensiamo a cosa sta succedendo negli ospedali, certo la recessione sarà dura, molto dura. Ci vorranno politiche e immaginazione per affrontare una crisi così, adesso l’emergenza è sanitaria, ma, col tempo emergerà sempre di più quella sociale ed economica. Bisognerà ricostruire, e bisognerà fare riforme, in Italia e in Europa, non più rinviabili. Si è aperta una fase nuova nella società e nella politica, nella vita individuale e collettiva, non è che ne usciremo domani, proprio no, siamo appena agli inizi. Guardiamo a quello che succede negli Stati Uniti per capire la gravità della crisi e la profondità della recessione, per cogliere gli andamenti di fondo, in prospettiva futura. La situazione è difficile da noi e negli altri Paesi europei, ma se si profilasse una grave crisi negli Stati Uniti, diventerebbe tutto molto, molto più difficile.

Intervista a cura di Carlo Mafera

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