Il cammino di tutti i popoli verso l’unità : ecco il messaggio dell’Epifania spiegato da Benedetto XVI

Prima di leggere le parole di Benedetto XVI, riflettiamo su ciò che diceva Giorgio La Pira 65 anni fa. Egli fu un vero profeta di pace, un conoscitore della Bibbia e un uomo che fece concretamente tante iniziative di pace a livello internazionale incarnando le parole del Vangelo. La sua forza fu quella della preghiera che faceva sostenere da quella di 400 monasteri femminili collegati alle sue azioni.

La lettura della storia umana e politica di La Pira ha un carattere ottimistico che quasi scandalizza se confrontato con le contraddizioni tuttora presenti nella grande storia e nella micro storia di tutti i giorni e di tutti gli uomini. Ma tale visione non è più solo patrimonio degli studi e delle riflessioni di Giorgio La Pira, è oramai un’acquisizione scientifica della teologia contemporanea con in testa i vari J. Daniélou, T. de Chardin, V. Von Balthasar. Non si capisce però a fondo la visione teologica e teleologica di La Pira se non ci si sofferma su un avvenimento che egli definisce risolutore di tutta la storia: “E’ Cristo Crocifisso e Risorto” il fatto che solo definisce il Cristianesimo e lo differenzia qualitativamente, radicalmente, irriducibilmente da “tutto” (da quaderni di Corea). Egli prosegue nello stesso scritto dicendo: “Se Cristo è risorto – è lo è – questo corpo glorioso risorto investe inevitabilmente l’intera creazione materiale (noti:materiale) e spirituale, politica e civile, del mondo. Questo corpo glorioso agisce appunto come lievito trasformatore come causa attrattiva e trasformatrice su tutta la realtà cosmica e storica”. E questa ferma convinzione non era suffragata dalla fantasia di La Pira ma da una precisa frase del Vangelo di Giovanni: “Quando sarò innalzato da terra, ATTRARRO’ TUTTO A ME”.

Questo era il fulcro del ragionamento lapiriano: l’evento della Resurrezione di Gesù che egli vedeva come un fatto fisico-storico, dotato di efficacia nel piano dei fenomeni naturali.
Era questo un fenomeno di cui La Pira era molto geloso e per il quale non voleva ascoltare nessun altra teoria. La realtà fisica della Resurrezione, il corpo “spirituale” di Cristo aveva una efficacia non solo nella vita dei discepoli e dei credenti ma nella vita di tutti gli uomini e della storia universale. Tanto era convinto di ciò che Egli amava dire: “I veri materialisti siamo noi cristiani”.
La Pira così leggeva la storia contemporanea e cercava di cogliere attraverso gli avvenimenti ” i segni dei tempi”.. Soprattutto le sue “Lettere alle claustrali” altro non sono che un commento biblico ai grandi eventi di una grande speranza di chiamata alla responsabilità.
Ma il “segno dei tempi” più significativo, secondo La Pira, è la situazione di apocalisse, cioè il cosiddetto “crinale apocalittico” nel quale l’esplosione nucleare di Hiroshima ha condotto la storia presente. Tutto è pronto per la distruzione del pianeta e tutto è pronto per la “pace millenaria dei popoli”. Da ciò si comprende in profondità la teoria profetica del “piano del Risorto che come punto omega muove la storia attraendo verso l’alto i popoli per farli convergere nella unità, nella giustizia, nella liberazione e nella pace” (Quaderni di Corea).
Il primo passo per realizzare la “pace millenaria” era la “sfida di Isaia”. Il brano più citato da La Pira era appunto (Is 2, 2-5), soprattutto il versetto 4 alle parole “Forgeranno le loro spade in vomeri in falci; un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo, non si eserciteranno più nell’arte della guerra”. Non era solo però La Pira a citare ISAIA ma anche l’ONU aveva scolpito le parole del profeta nella sua sede a New York e persino John Kennedy aveva fatto riferimento nel suo discorso di investitura il 20 gennaio 1961.

La Pira credeva in un certo millenarismo, nella base dell’Apocalisse di S. Giovanni, e gli serviva come stimolo a riconoscere i segni di una fioritura cristiana della storia. Egli delineava tre tappe essenziali nel cammino dei popoli: 1) la prima era costituita dalla “pienezza dei tempi” avvenuta con l’Incarnazione; 2) la seconda era caratterizzata dalla “pienezza delle nazioni”, l’ingresso cioè di tutti i popoli nella Chiesa; 3) la terra era costituita dalla “pienezza degli ebrei” cioè dalla conversione Israele a Cristo.
Per La Pira i segni del tempo che caratterizzano la “pienezza delle nazioni” e la “pienezza degli ebrei sono: 1) l’unità sempre più possibile e urgente di tutti i popoli; 2) il ricostituirsi di Israele, come popolo, nella terra.
Questi quindi sono i segni che indicano l’alba del millennio di pace sulla terra.
La tesi lapiriana “millenarista” nel 1962 diventava un gioioso annuncio. “Il Regno di Cristo avrà in certo senso, attuazione anche in terra; ciò deriva dalla potestà, anche terrena che il padre ha dato al Risorto è l’attuazione della preghiera fondamentale di Cristo e della Chiesa (“… venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà come in Cielo così in terra”, è anche il senso profondo, totale che tocca tutti i popoli della preghiera finale di Gesù: “siano una cosa sola” (Gn 17,21)” (lettera S. Monica 1962). Ma nel 1963 nella tavola rotonda EST-OVEST svoltasi a Mosca il 4 dicembre, la tesi millenaristica diventa una tesi politica. La Pira ripete davanti all’assemblea il testo della apocalisse di S. Giovanni e tra l’altro affermò “Un sogno? Una utopia? No? Una realtà storica verso la quale è faticosamente e drammaticamente avviata la storia del mondo: una realtà storica che anche se da lontano aleggia proprio oggi:
La Pira perciò era ben consapevole che l’instaurazione della pace è sottoposta ogni giorno alle tante contraddizioni causate dalla fragilità dell’essere umano. I suoi discorsi sono pieni di molti incisi cautelativi (nonostante soste e cadute, malgrado marosi e tempeste) a testimoniare l’estrema difficoltà con la quale si andava realizzando il regno di Dio sulla terra.

Non si comprende quindi l’azione di La Pira nel campo internazionale se non si comprendono le idee-forza, prima delineate. Le sue proposte politiche concrete affondavano le loro radici in un forte “pre-politico culturale”. E tale dimensione per il sindaco di Firenze stava tutta nel dialogo religioso con il mondo della contemplazione e della preghiera. In questa egli intuiva il “già” presente nella pace messianica non cadendo in un facile ottimismo di cui peraltro era pervaso, ma anzi condividendo la sofferenza di questa nuova gestazione del mondo e facendo proprie la crisi che inevitabilmente si creavano. Egli le superava con la sua fede ma soprattutto con la speranza contro ogni speranza”.
Se La Pira fu un sognatore, fu anche un profeta ed egli amava dire dei profeti che “sono in ultima istanza i realisti veri ” e “con i profeti non siamo nello spazio dell’utopia, siamo nello spazio della profezia e della storia”.
Fu un “venditore di speranze” che visse il suo Cristianesimo coerentemente con quello pensato. Se si può ricordare un uomo dai suoi frutti, la verifica della storia gli da certamente ragione. La caduta del muro di Berlino, 1989, e insieme con esso del comunismo non è forse il frutto del suo viaggio fatto a Mosca nel 1959 quando egli portò a Krusciov il messaggio profetico di Fatima? La pace tra, Israele e OLP non ha avuto forse i suoi prodromi nei colloqui mediterranei che egli organizzava nei primi anni 50? Egli aveva un arma infallibile: la preghiera.. Ogni volta che doveva intraprendere un azione politica interna o internazionale chiedeva il supporto delle orazioni di 400 monasteri di clausura a cui egli era collegato. La Pira come un novello Archimede religioso utilizzava la preghiera come la classica leva con la quale sollevava il mondo.

Ma come si tradusse in concreto l’azione politica internazionalista di La Pira? Quale fu la molla che lo fece diventare “profeta” di pace? Il giorno dell’Epifania del ’51 La Pira aveva partecipato a Roma, alla “messa delle nazioni” celebrata alla Chiesa Nuova che era poi il luogo d’incontro del gruppo di cui faceva parte (Cronache Sociali). Era l’anno in cui infuriava la guerra di Corea; le truppe cinesi avevano rigettato indietro le forze comandate del generale Mac Arthur che aveva intenzioni di colpire la Cina nel suo stesso territorio. Oramai l’ombra di un terzo conflitto mondiale, reso apocalittico dalla corsa agli armamenti, teneva il mondo con il fiato sospeso.
La Pira durante la messa ebbe una intuizione che volle realizzare subito. Fare in modo che Stalin facesse un gesto distensivo. Attraverso Togliatti che si trovava a Mosca fece pervenire al capo del Cremlino tale progetto. Ma la reazione di Stalin fu sconcertante, facendo sapere che gli zelanti cattolici non dovevano rivolgersi a lui ma ai “Partigiani della pace”. Cosicchè La Pira pensò di interpretare le ansie di tutti i cristiani e non, mettendo la città di Firenze al servizio della pace, una volta divenuto Sindaco. Perciò indisse i Convegni della pace e civiltà cristiana.
C’è da notare che il gruppo di “Cronache sociali” il cui leader era Dossetti si era opposto nel ’49 alla adesione dell’Italia al Patto atlantico. Egli credeva che bisognasse “giungere a concordare con gli altri paesi europei una formula capace di dare inizio all’unità pacifica e costruttiva dell’Europa: e più precisamente secondo una formula graduale da recarsi al di fuori di raggruppamenti particolari di immediato carattere militare”.
Oramai lo Stato italiano non poteva più svolgere una politica di dialogo. Non restava che una tribuna, quella della città; e in particolare la città di Firenze si prestava a quel ruolo di promotrice per un confronto di idee sul vasto tema della “civiltà cristiana”.
Fu per così dire una ottima palestra, quella che fece La Pira in qualità di Sindaco di Firenze perché ebbe modo, di realizzare quanto aveva affermato durante i lavori della costituente; cioè poté mettere in evidenza il prezioso ruolo dei “corpi intermedi” e delle autonomie locali.
La sua città infatti si sarebbe assunta il compito che lo Stato non era più in grado di svolgere. Ma della strategia dei Convegni non si conosceva l’efficacia, e molti erano perplessi su tale formula ispirata all’idea cristiana che non potessero darsi valori umani al di fuori di una prospettiva di fede. La civiltà, come la pace, non può avere aggettivi. Ma La Pira pensava che restando nell’alveo del linguaggio cristiano avrebbe, tacitato le riserve e le opposizioni che da più posti si sarebbero alzate se si fossero adoperati altri caratteri formali. Così egli fece riferimento all’atto di unità e di pace fra la Chiesa d’Occidente e la Chiesa d’Oriente, firmato il 6 luglio 1439 in S. Maria del Fiore.
Si trattava più che di un convegno, di un concilio delle nazioni cristiane che aveva per obiettivo di sanare uno scisma ideologico-politico. Se Stalin aveva interrotto il dialogo La Pira da Firenze, sede qualificata e non compromettente, lo aveva riaperto. Comunque ancora non si poteva parlare di dialogo perché forti erano ancora le barriere ideologiche. Si trattava ancora di lunghi monologhi a più voci.
Nella seconda edizione del ’53 La Pira chiamò i convegni “un nuovo organo” nel “corpo della civiltà cristiana e umana”. I convegni ora sono meno ecclesiali e svolgono più un compito di verifica e di autocritica nei confronti del patrimonio di civiltà ereditato nei secoli, piuttosto che di condanna.
Ma ancora l’unico vincolo reale che teneva unite le nazioni occidentali (in quanto quelle orientali erano “secessioniste”) era l’anticomunismo.
Quindi lo stesso La Pira continuava ad avere una visione occidentalista della pace. Civiltà Cristiana o occidente, occidente e mondo libero sono ancora, per La Pira, una cosa sola. Ma in seguito anche il discorso del Sindaco “si farà più articolato, meno prigioniero dello schema manicheo e più fedele all’intuizione di partenza: quella dell’unità strutturale del mondo “luminosamente manifesta dal messaggio evangelico e porta nel Mediterraneo a base dell’unico solidale edificio politico del mondo”.
Nel ’61, per evitare e superare definizioni troppo integraliste si serve invece della definizione laica del poeta e politico negro Leopold Senghor cioè “la civiltà dell’universale”. La Pira piano piano progredisce verso un linguaggio profetico.
Nello stesso periodo iniziò per La Pira l’interesse per il mondo scientifico non più guardato come sospetto ma con entusiasmo perché aveva creato le condizioni per l’unificazione futura del mondo e aveva preparato la struttura della nuova età organica e planetaria verso cui tutti i popoli camminano consapevolmente o inconsapevolmente.

Il convegno però più importante e significativo si svolse nel 1955 dal 2 al 5 ottobre. Nell’inaugurarlo La Pira si richiamò all’incontro di Ginevra del 12 aprile dell’anno precedente. In quell’incontro egli tenne un discorso che divenne il programma per così dire “ideologico” della sua futura azione politica. Elaborò per la prima volta una tesi del tutto nuova nel ruolo delle città nell’era atomica e in particolare su Firenze, la città eletta.
Il suo linguaggio circondava di legittimo compiacimento: “Nessuno potrà più ignorare, infatti, che la sera del 2 ottobre erano presenti a Firenze nel salone dei Cinquecento, per la prima volta, l’una all’altra vicina, in fraterna comunione e concordia, le città capitali del mondo: Roma vicino a Mosca, Washington vicina a Pechino … insomma una vicinanza che nell’immaginario di La Pira era già la prefigurazione del mondo pacifico. Faceva parte – dice Ernesto Balducci – della sua strategia, la risoluzione dei conflitti reali con gesti di conciliazione simbolica. Il gesto della stretta di mano tra il Cardinale e il Sindaco di Mosca, Jasnov, equivaleva per La Pira ad un timido inizio di quella “conversione della Russia” che la Madonna aveva profetizzato a Fatima.
Ma il vertice dei suoi ragionamenti simbolici consisteva proprio nel patto fra le capitali del mondo. Tra l’altra egli affermava: “Signori intuisco già le critiche degli scettici, dei piccoli Machiavelli della politica: – a che serve un atto simile? Forse che noi sindaci abbiamo il diritto di guerra o di pace? E allora? – Obiezioni simili rivelano una dimensione morale ed anche politica e storica di scarsa misura”.
Era questo un motivo ricorrente. Il sindaco si sentiva in obbligo di non lasciarsi afferrare dalla logica machiavellica: quella che mette in contrasto la verità ideale e la verità effettuale.
Ma La Pira afferma che, con l’esplosione della atomica le ragioni dell’utopia erano diventate le ragioni dell’unico realismo possibile e lascia intendere che, persino Machiavelli che era avvezzo a vedere le cose come sono e non come si vorrebbe che fossero, avrebbe adottato l’utopia.
Più volte La Pira proclama “I veri realisti siamo noi cristiani”. In particolare a Ginevra, egli rivendicò il diritto ad esistere delle città: “Quando dico che tutte le città della terra, davanti al reale pericolo di una condanna a morte, proclamano uomini il loro inevitabile diritto all’esistenza, io non faccio una retorica e non faccio del nominalismo: non uso cioè parole ed immagini cui non corrisponda una solida realtà.

SANTA MESSA NELLA SOLENNITÀ DELL’EPIFANIA DEL SIGNORE

OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI

Basilica Vaticana
Domenica, 6 gennaio 2013

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Cari fratelli e sorelle!

Per la Chiesa credente ed orante, i Magi d’Oriente che, sotto la guida della stella, hanno trovato la via verso il presepe di Betlemme sono solo l’inizio di una grande processione che pervade la storia. Per questo, la liturgia legge il Vangelo che parla del cammino dei Magi insieme con le splendide visioni profetiche di Isaia 60 e del Salmo 72, che illustrano con immagini audaci il pellegrinaggio dei popoli verso Gerusalemme. Come i pastori che, quali primi ospiti presso il Bimbo neonato giacente nella mangiatoia, personificano i poveri d’Israele e, in genere, le anime umili che interiormente vivono molto vicino a Gesù, così gli uomini provenienti dall’Oriente personificano il mondo dei popoli, la Chiesa dei gentili – gli uomini che attraverso tutti i secoli si incamminano verso il Bambino di Betlemme, onorano in Lui il Figlio di Dio e si prostrano davanti a Lui. La Chiesa chiama questa festa “Epifania” – l’apparizione, la comparsa del Divino. Se guardiamo il fatto che, fin da quell’inizio, uomini di ogni provenienza, di tutti i Continenti, di tutte le diverse culture e tutti i diversi modi di pensiero e di vita sono stati e sono in cammino verso Cristo, possiamo dire veramente che questo pellegrinaggio e questo incontro con Dio nella figura del Bambino è un’Epifania della bontà di Dio e del suo amore per gli uomini (cfr Tt 3,4).

Seguendo una tradizione iniziata dal Beato Papa Giovanni Paolo II, celebriamo la festa dell’Epifania anche quale giorno dell’Ordinazione episcopale per quattro sacerdoti che d’ora in poi, in funzioni diverse, collaboreranno al Ministero del Papa per l’unità dell’unica Chiesa di Gesù Cristo nella pluralità delle Chiese particolari. Il nesso tra questa Ordinazione episcopale e il tema del pellegrinaggio dei popoli verso Gesù Cristo è evidente. Il Vescovo ha il compito non solo di camminare in questo pellegrinaggio insieme con gli altri, ma di precedere e di indicare la strada. Vorrei, però, in questa liturgia, riflettere con voi ancora su una domanda più concreta. In base alla storia raccontata da Matteo possiamo sicuramente farci una certa idea di quale tipo di uomini debbano essere stati coloro che, in seguito al segno della stella, si sono incamminati per trovare quel Re che, non soltanto per Israele, ma per l’umanità intera avrebbe fondato una nuova specie di regalità. Che tipo di uomini, dunque, erano costoro? E domandiamoci anche se, malgrado la differenza dei tempi e dei compiti, a partire da loro si possa intravedere qualcosa su che cosa sia il Vescovo e su come egli debba adempiere il suo compito.

Gli uomini che allora partirono verso l’ignoto erano, in ogni caso, uomini dal cuore inquieto. Uomini spinti dalla ricerca inquieta di Dio e della salvezza del mondo. Uomini in attesa, che non si accontentavano del loro reddito assicurato e della loro posizione sociale forse considerevole. Erano alla ricerca della realtà più grande. Erano forse uomini dotti che avevano una grande conoscenza degli astri e probabilmente disponevano anche di una formazione filosofica. Ma non volevano soltanto sapere tante cose. Volevano sapere soprattutto la cosa essenziale. Volevano sapere come si possa riuscire ad essere persona umana. E per questo volevano sapere se Dio esista, dove e come Egli sia. Se Egli si curi di noi e come noi possiamo incontrarlo. Volevano non soltanto sapere. Volevano riconoscere la verità su di noi, e su Dio e il mondo. Il loro pellegrinaggio esteriore era espressione del loro essere interiormente in cammino, dell’interiore pellegrinaggio del loro cuore. Erano uomini che cercavano Dio e, in definitiva, erano in cammino verso di Lui. Erano ricercatori di Dio.

Ma con ciò giungiamo alla domanda: come dev’essere un uomo a cui si impongono le mani per l’Ordinazione episcopale nella Chiesa di Gesù Cristo? Possiamo dire: egli deve soprattutto essere un uomo il cui interesse è rivolto verso Dio, perché solo allora egli si interessa veramente anche degli uomini. Potremmo dirlo anche inversamente: un Vescovo dev’essere un uomo a cui gli uomini stanno a cuore, che è toccato dalle vicende degli uomini. Dev’essere un uomo per gli altri. Ma può esserlo veramente soltanto se è un uomo conquistato da Dio. Se per lui l’inquietudine verso Dio è diventata un’inquietudine per la sua creatura, l’uomo. Come i Magi d’Oriente, anche un Vescovo non dev’essere uno che esercita solamente il suo mestiere e non vuole altro. No, egli dev’essere preso dall’inquietudine di Dio per gli uomini. Deve, per così dire, pensare e sentire insieme con Dio. Non è solo l’uomo ad avere in sé l’inquietudine costitutiva verso Dio, ma questa inquietudine è una partecipazione all’inquietudine di Dio per noi. Poiché Dio è inquieto nei nostri confronti, Egli ci segue fin nella mangiatoia, fino alla Croce. “Cercandomi ti sedesti stanco, mi hai redento con il supplizio della Croce: che tanto sforzo non sia vano!”, prega la Chiesa nel Dies irae. L’inquietudine dell’uomo verso Dio e, a partire da essa, l’inquietudine di Dio verso l’uomo devono non dar pace al Vescovo. È questo che intendiamo quando diciamo che il Vescovo dev’essere soprattutto un uomo di fede. Perché la fede non è altro che l’essere interiormente toccati da Dio, una condizione che ci conduce sulla via della vita. La fede ci tira dentro uno stato in cui siamo presi dall’inquietudine di Dio e fa di noi dei pellegrini che interiormente sono in cammino verso il vero Re del mondo e verso la sua promessa di giustizia, di verità e di amore. In questo pellegrinaggio, il Vescovo deve precedere, dev’essere colui che indica agli uomini la strada verso la fede, la speranza e l’amore.

Il pellegrinaggio interiore della fede verso Dio si svolge soprattutto nella preghiera. Sant’Agostino ha detto una volta che la preghiera, in ultima analisi, non sarebbe altro che l’attualizzazione e la radicalizzazione del nostro desiderio di Dio. Al posto della parola “desiderio” potremmo mettere anche la parola “inquietudine” e dire che la preghiera vuole strapparci alla nostra falsa comodità, al nostro essere chiusi nelle realtà materiali, visibili e trasmetterci l’inquietudine verso Dio, rendendoci proprio così anche aperti e inquieti gli uni per gli altri. Il Vescovo, come pellegrino di Dio, dev’essere soprattutto un uomo che prega. Deve essere in un permanente contatto interiore con Dio; la sua anima dev’essere largamente aperta verso Dio. Le sue difficoltà e quelle degli altri, come anche le sue gioie e quelle degli altri le deve portare a Dio, e così, a modo suo, stabilire il contatto tra Dio e il mondo nella comunione con Cristo, affinché la luce di Cristo splenda nel mondo.

Torniamo ai Magi d’Oriente. Questi erano anche e soprattutto uomini che avevano coraggio, il coraggio e l’umiltà della fede. Ci voleva del coraggio per accogliere il segno della stella come un ordine di partire, per uscire – verso l’ignoto, l’incerto, su vie sulle quali c’erano molteplici pericoli in agguato. Possiamo immaginare che la decisione di questi uomini abbia suscitato derisione: la beffa dei realisti che potevano soltanto deridere le fantasticherie di questi uomini. Chi partiva su promesse così incerte, rischiando tutto, poteva apparire soltanto ridicolo. Ma per questi uomini toccati interiormente da Dio, la via secondo le indicazioni divine era più importante dell’opinione della gente. La ricerca della verità era per loro più importante della derisione del mondo, apparentemente intelligente.

Come non pensare, in una tale situazione, al compito di un Vescovo nel nostro tempo? L’umiltà della fede, del credere insieme con la fede della Chiesa di tutti i tempi, si troverà ripetutamente in conflitto con l’intelligenza dominante di coloro che si attengono a ciò che apparentemente è sicuro. Chi vive e annuncia la fede della Chiesa, in molti punti non è conforme alle opinioni dominanti proprio anche nel nostro tempo. L’agnosticismo oggi largamente imperante ha i suoi dogmi ed è estremamente intollerante nei confronti di tutto ciò che lo mette in questione e mette in questione i suoi criteri. Perciò, il coraggio di contraddire gli orientamenti dominanti è oggi particolarmente pressante per un Vescovo. Egli dev’essere valoroso. E tale valore o fortezza non consiste nel colpire con violenza, nell’aggressività, ma nel lasciarsi colpire e nel tenere testa ai criteri delle opinioni dominanti. Il coraggio di restare fermamente con la verità è inevitabilmente richiesto a coloro che il Signore manda come agnelli in mezzo ai lupi. “Chi teme il Signore non ha paura di nulla”, dice il Siracide (34,16). Il timore di Dio libera dal timore degli uomini. Rende liberi!

In questo contesto mi viene in mente un episodio degli inizi del cristianesimo che san Luca narra negli Atti degli Apostoli. Dopo il discorso di Gamaliele, che sconsigliava la violenza verso la comunità nascente dei credenti in Gesù, il sinedrio chiamò gli Apostoli e li fece flagellare. Poi proibì loro di predicare nel nome di Gesù e li rimise in libertà. San Luca continua: “Essi allora se ne andarono via dal sinedrio, lieti di essere stati giudicati degni di subire oltraggi per il nome di Gesù. E ogni giorno … non cessavano di insegnare e di annunciare che Gesù è il Cristo” (At 5,40ss). Anche i successori degli Apostoli devono attendersi di essere ripetutamente percossi, in maniera moderna, se non cessano di annunciare in modo udibile e comprensibile il Vangelo di Gesù Cristo. E allora possono essere lieti di essere stati giudicati degni di subire oltraggi per Lui. Naturalmente vogliamo, come gli Apostoli, convincere la gente e, in questo senso, ottenerne l’approvazione. Naturalmente non provochiamo, ma tutt’al contrario invitiamo tutti ad entrare nella gioia della verità che indica la strada. L’approvazione delle opinioni dominanti, però, non è il criterio a cui ci sottomettiamo. Il criterio è Lui stesso: il Signore. Se difendiamo la sua causa, conquisteremo, grazie a Dio, sempre di nuovo persone per la via del Vangelo. Ma inevitabilmente saremo anche percossi da coloro che, con la loro vita, sono in contrasto col Vangelo, e allora possiamo essere grati di essere giudicati degni di partecipare alla Passione di Cristo.

I Magi hanno seguito la stella, e così sono giunti fino a Gesù, alla grande Luce che illumina ogni uomo che viene in questo mondo (cfr Gv 1,9). Come pellegrini della fede, i Magi sono diventati essi stessi stelle che brillano nel cielo della storia e ci indicano la strada. I santi sono le vere costellazioni di Dio, che illuminano le notti di questo mondo e ci guidano. San Paolo, nella Lettera ai Filippesi, ha detto ai suoi fedeli che devono risplendere come astri nel mondo (cfr 2,15).

Cari amici, ciò riguarda anche noi. Ciò riguarda soprattutto voi che, in quest’ora, sarete ordinati Vescovi della Chiesa di Gesù Cristo. Se vivrete con Cristo, a Lui nuovamente legati nel Sacramento, allora anche voi diventerete sapienti. Allora diventerete astri che precedono gli uomini e indicano loro la via giusta della vita. In quest’ora noi tutti qui preghiamo per voi, affinché il Signore vi ricolmi con la luce della fede e dell’amore. Affinché quell’inquietudine di Dio per l’uomo vi tocchi, perché tutti sperimentino la sua vicinanza e ricevano il dono della sua gioia. Preghiamo per voi, affinché il Signore vi doni sempre il coraggio e l’umiltà della fede. Preghiamo Maria che ha mostrato ai Magi il nuovo Re del mondo ( Mt 2,11), affinché ella, quale Madre amorevole, mostri Gesù Cristo anche a voi e vi aiuti ad essere indicatori della strada che porta a Lui. Amen.

pubblicazione rimuovibile a cura di Carlo Mafera  (SPV)

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